Presentazione

Mario Fubini, Prefazione, in Il Baretti, Bottega d’Erasmo, Torino, 1977

Quando sul finire del 1924 si affiancò a “la Rivoluzione Liberale” la rivista letteraria “Il Baretti” poté sembrare a taluno che si volesse parare col nuovo foglio una possibile, anzi probabile, soppressione di “Rivoluzione Liberale”, e “Il Baretti”, in effetti, nell’ultimo anno di vita incerta e sempre minacciata di “Rivoluzione Liberale” continuò a far sentire la voce di Gobetti e dei suoi amici sia pure se in un ambito tanto più ristretto. In realtà “Il Baretti” rispondeva a un ormai antico proposito di Gobetti, che scrivendone il 24 novembre di quell’anno all’amico Caramella, diceva fra l’altro: «Spero che il Baretti sarà una cosa ben pensata. Viene al momento buono e ristabilisce l’unità e la larghezza del nostro movimento grossolanamente tentato al tempo dei nostri peccati di Energie Nove». Non era un puro politico e nemmeno un puro letterato, ma aveva il senso dell’umanità nei suoi molteplici aspetti diversi e pur intimamente congiunti, e gli piaceva nel momento stesso in cui era preso da una serrata e mortale polemica politica rivolgersi ancora alla letteratura, non per trovare un rifugio o un conforto ma per ritemprarsi in una nuova atmosfera, senza per questo straniarsi dal doloroso presente della realtà italiana. Giovanissimo, al tempo di “Energie Nove” gli aveva sorriso questo fantasma di una cultura totale: ora con spirito più maturo poteva, quando tanto di sé aveva già dato alla lotta politica, senza rinunciarvi volgersi anche alla letteratura nel più ampio senso del termine. Soltanto questo pensiero, questo proposito infondeva in lui un nuovo calore vitale, e le lettere con cui lo annuncia agli amici (Caramella, Morra, Sapegno) sono testimonianza di questo rinnovato fervore di lavoro, della sua «forza allegra», come avrebbe detto il De Sanctis, allegra nonostante tutto.
 
Da un medesimo proposito, da una medesima concezione di una cultura totale aveva avuto origine la sua casa editrice, che in così poco tempo si era vigorosamente affermata e continuava ad affermarsi. “Il Baretti” doveva essere in certo senso l’organo della casa editrice, che insieme a tanti testi oggi classici dei maggiori rappresentanti dell’antifascismo, aveva in programma e perseverò a pubblicare opere letterarie in prosa e in versi. Ricordiamo che Gobetti fu il primo editore degli Ossi di seppia di Montale,a lui segnalato con alta lode da Sergio Solmi, e che egli raccomandò al Sapegno – come il Sapegno stesso ricordò nel suo articolo sul “Baretti”, primo approccio a quella non facile poesia da lui contrapposta all’ostentata vivacità del papiniano Pane e vino – e Montale egli volle fra i collaboratori del “Baretti” (ne scriveva nella lettera citata a Caramella:  «dovresti conoscere e far lavorare Montale») – e tre articoli notevolissimi, sopra tutto il primo Stile e tradizione il poeta diede al nuovo giornale. Ma della latitudine degli interessi letterari gobettiani è documento anche tutt’altra scoperta: dello scapigliato provinciale Cagna, di cui pubblicò tre volumi di opere assai prima che alla scapigliatura dei Cagna e dei Faldella si rivolgessero letterati più fini e moderni. Così pure “Il Baretti” fu anch’esso opera di quel «formidabile organizzatore di cultura» che altamente pregiarono Antonio Gramsci e Benedetto Croce.
 
Di quel che voleva essere “Il Baretti” ci dan testimonianza le lettere sue a Morra, Caramella, Cecchi improntate dal fervore dell’impresa a cui si accingeva pur nel vivo della lotta politica e dell’imminenza della catastrofe. Vi si delinea un ampio quadro di lavoro in cui han posto non la letteratura italiana soltanto ma le letterature di tutti i popoli. Caratteristica sua è guardar fuori d’Italia, questa sua visione europea, e non soltanto europea, della letteratura: mentre incombeva un cupo e gretto nazionalismo, stava a cuore a Gobetti, come un giorno ai romantici nostri, l’apertura ad altri popoli, ad altre letterature. Perciò egli delineava un programma così ampio di lavoro per i collaboratori e attendeva consiglio e aiuto dai competenti. Se in tutto fatalmente “Il Baretti” non ha risposto alle sue intenzioni, è qui una nota caratteristica della rivista: l’insistenza sulle letterature straniere non verrà meno neanche dopo la sua scomparsa. Primo e migliore frutto di questi propositi il numero doppio sulla letteratura francese contemporanea, notevolissimo per l’oculata scelta dei soggetti, per i nomi dei critici a cui sono stati affidati, che per quegli autori avevano una particolare inclinazione, se si pensa che Gobetti era in quel tempo così impegnato nella lotta politica, tanto più mirabile riuscirà questo numero “francese”, a cui non so quale altra rivista nostra in quel tempo potrebbe contrapporsi per compiutezza d’informazione e finezza di analisi. E quel numero doveva essere soltanto il primo di una serie delineata da Gobetti in una lettera al Morra del 17 gennaio 1925: «Francia: Gide. Proust. Valéry. Il teatro. I critici – Dadaismo. Germania: Teatro (Kaiser Unruh, Toller, ecc.) Lirica (George e i nuovi) Romanzo (Schnitzer, ecc.) Critica Gundolf, ecc.). Inghilterra: Conrad. Galsworthy – Irlandesi (primi) – Joyce – Poesia: Chesterton. Belloc; critici; Teatro. Spagna id. Valle Inclan Miro Ramon Gomez. Romanzo dopo Baroia  Pensiero dopo Unamuno. Insomma il nuovo spirito di tutti questi popoli: niente Hauptmann, Blasco Ibanez, niente i vari Bourget di tutto il mondo». Se poco di questo programma poté essere attuato, esso è pure presente nel “Baretti” anche dopo la scomparsa del suo fondatore con altri articoli di letteratura francese, ma anche di altre letterature. Invitato da Gobetti, lo studioso tedesco Ernst Robert Curtius scriverà per “Il Baretti” una Presentazione di Stefan George e George ancora sarà soggetto di più di un articolo del Vincenti, fervido ammiratore del poeta tedesco di cui esamina la poesia e l’alto insegnamento morale, non rilevandone forse abbastanza il fondamentale estetismo: al Vincenti pure che lettore a Monaco aveva collaborato a “La Rivoluzione liberale” con un articolo sulla Baviera, si deve più di un articolo sul Novecento, sull’Espressionismo, su Fritz von Unruh, su George Kaiser e un ampio discorso sul teatro tedesco – alla lirica tedesca è dedicato un vasto panorama di Elio Gianturco, troppo corrivo ad accogliere le voci più aberranti del razzismo germanico (George esponente del giudaismo!) di cui forse né Gobetti né noi né lo stesso Gianturco avvertimmo allora l’enormità. Altro ancora vi è nel “Baretti” su autori inglesi, francesi, tedeschi, russi, con saggi di poesie tradotte di contemporanei e di autori del passato: per questi secondi consigliere e presentatore di saggi di poeti vittoriani dovette essere Emilio Cecchi, che di questo argomento aveva discorso con Gobetti.
 
Con queste presenze di autori stranieri, con questo continuo richiamo degli italiani a un più vasto mondo di quello in cui minacciavano di chiudersi, sarà da riconnettere il titolo del foglio al nome del critico che, con il suo fare un po’ brusco e severo, aveva invitato gli italiani a guardarsi intorno, a prendere lezioni sopra tutto dagli inglesi. Non il Baretti a dire il vero ma l’Alfieri impersonava il suo ideale politico e umano; in Risorgimento senza eroi egli segnerà duramente il distacco suo dall’autore della Frusta «il montanaro retrivo, irascibile e scettico, e perciò, sotto il furore, incapace di una posizione di solitudine e di moralismo intransigente» - e forse gli parve opportuno accentuare così crudamente la distanza sua e dei suoi collaboratori da quel letterato del Settecento, quando era già comparsa la rivista che da lui prendeva il nome. Ma per quanto lontana fosse dal suo ideale politico e umano, non sapeva rinunciare a farsi di questo vecchio piemontese ostinato e pervicace con un gusto tutto suo della polemica, senza identificarsi per questo con lui, un simbolo o, per meglio dire, una maschera del critico gobettiano che tante e così diverse battaglie doveva intraprendere dopo quelle lontane della “Frusta letteraria”. Tale lo sentiranno ancora i collaboratori del giornale compiacendosi di contrapporre, come farà Caramella, alla nuova “Fiera letteraria” l’antica e la nuova “Frusta” e sottolineare il contrasto fra due modi di sentire la letteratura e non la letteratura soltanto. Per questo il titolo della rivista “Il Baretti” è rimasto in certo modo emblematico dell’insegnamento gobettiano e di una tendenza che sentiamo viva ancor oggi, anche se non pochi dei suoi articoli possono essere stati dimenticati.
 
Quel che “Il Baretti” dovesse essere è detto in un comunicato stampa in cui si annuncia la prossima pubblicazione del nuovo foglio. Vi si legge fra l’altro: «E’ tempo di lasciare da parte i programmi troppo facili e definitivi e di lavorare per creare un interesse, senza secondi fini, per la letteratura, per determinare un’atmosfera di maggior comprensione e di maggior intimità morale. Il Baretti di fronte al provincialismo e alla retorica dilaganti intraprenderà una vera battaglia di illuminismo e di stile europeo. Così tornare alle tradizioni e continuare i valori più intangibili della nostra letteratura e della nostra cultura, vorrà anche dire metterci in grado di intendere le manifestazioni più moderne di tutte le letterature e di farle nostre con serenità e oggettività senza lo stupore dei provinciali». Questi concetti son ribaditi con stile più risentito e personale nel corsivo con cui si apre il giornale intitolato Illuminismo, un termine di cui oggi si abusa ma che allora era nuovo e pregnante. E’ un’analisi della situazione presente della letteratura, che sottintende si capisce anche il giudizio politico, ma la letteratura non è qui soltanto un pretesto né i suoi mali stanno soltanto come allusione a mali politici poiché sono pur essi mali reali, portati di una crisi che deve essere superata e perciò prima di tutto conosciuta: «Non vorremmo ripetere in nessun modo certi atteggiamenti incendiari, avveniristi e ribelli che indicarono per l’appunto coscienze deboli, destinate a servire. Avendo assistito alla triste sorte delle speranze sproporzionate, delle fiduciose baldanze, delle febbri di attivismo, il nostro proposito è di conservarci molto parchi in fatto di crisi di coscienza e di formule di salvazione; né di lasciarci sorprendere ad escogitare nuove teorie dove basterà la sapienza quotidiana. Abbiamo deciso di mettere tutte le nostre forze per salvare la dignità prima che la genialità, per ristabilire un tono decoroso e consolidare una sicurezza di valori e di convinzioni; fissare degli ostacoli agli improvvisatori, costruire delle difese per la nostra letteratura rimasta troppo tempo preda apparecchiata ai più immodesti e agili conquistatori. (…) Perciò invece di levare grida di allarmi o voci di raccolta incominciamo a lavorare con semplicità per trovare anche per noi uno stile europeo».
 
Bene compiono e svolgono le idee enunciate da Gobetti gli articoli che seguono di Sapegno e di Morra, rispondenti a un chiaro disegno del direttore che il 23 ottobre del ’24 scriveva al primo: «Il Baretti uscirà dunque improrogabilmente il 1 dicembre, ti dò 15 giorni esatti di tempo per scrivere l’articolo di fondo. Come Fubini ti aveva detto in agosto, l’articolo di fondo dovrebbe essere un’impostazione sommaria dei modi con cui noi guardiamo la critica letteraria e in generale i problemi della cultura e della storia dopo Croce e con l’esperienza fascista del gentilismo (Naturalmente la parola fascista la dico tanto per intenderci: nell’articolo non ci deve essere perché il tono della rivista non può essere di polemica tendenziosa). Puoi ripensare anche ai risultati del classicismo postbellico, Ronda, ecc., - e soprattutto rispondere agli atteggiamenti della passata generazione (Voce – futurismo, ecc.). Un articolo sintetico, chiaro come un bilancio, con intenzioni nette, senza però tono di programma .»
 
Così l’articolo di Sapegno Resoconto di una sconfitta ci si presenta come un bilancio dolente e severo della cultura degli ultimi tempi, della sostanziale inefficacia dell’insegnamento di Croce, della dispersione e dei vari disegni dei letterati, di quel che poteva essere Renato Serra, o dell’ambizione dei neoclassicisti. E l’articolo di Morra sulla Voce e i vociani viene a essere una critica di quel movimento a cui pure, nei suoi inizi, si rifaceva Gobetti, e una precisa e sicura indicazione dei limiti dei vociani e della loro velleità riformatrice. Sapegno e Morra resteranno nel “Baretti”, vorrei dire le due colonne portanti, per l’acutezza delle analisi, per la ponderatezza dei giudizi. L’articolo già citato di Sapegno sulle raccolte poetiche di Papini e di Montale e quelli sugli studi francescani, sui recenti studi su Machiavelli (Ercole e Chabod), sul Foscolo, su Lorenzo il Magnifico ci appaiono esemplari per l’equilibrio dei giudizi e rivelano in questo equilibrio, in questa caratteristica medietà il carattere di una mente che si preparava a dare i suoi frutti più sostanziosi in opere più mature come il Trecento vallar diano ma che ci piace cogliere qui nel suo primo manifestarsi.
 
Diverso lo stile di Morra, gentiluomo esperto di molte terre, molti uomini, molti libri, nei suoi discorsi ampi, non mai svagati di letteratura e moralità: esemplare, per citare un esempio il giudizio severo e preciso sul critico francese Massis o l’articolo sul Tagore e la sua ambigua fama. Molto piacevano a Gobetti che il 20 marzo del 1925 gli scriveva: “Allo stato delle cose i tuoi scritti nel Baretti sono i migliori” e gli ricordava le sue responsabilità di “uomo tipo del Baretti”. E in altra antecedente del 17 gennaio del 1925, che già abbiamo ricordato per il programma che vi si disegna di numeri dedicati alle letterature straniere, così da lui si congedava con un fare tra serio e scherzoso: “Volevi una lettera ed ora dovrai pensare due giorni per rispondermi: ma è la tua sorte di corresponsabile del “Baretti”.
 
Con Sapegno e Morra prima di ogni altro tra i collaboratori va ricordato Gobetti, che col suo nome o con pseudonimo sul “Baretti” pubblicò ancora note ed articoli: un Gobetti non diverso da quello che conoscevamo, ma forse più pungente, più incisivo, sia che ripensi all’esperienza sua di critico teatrale con una pagina di giudizi sommari sugli autori di quel teatro italiano “che non esiste”, sicche riesamini i giudizi su Pirandello per cui ora lascia cadere o mette in sordina la sua definizione di poeta della dialettica per esaltare sopra gli altri, troppi drammi, l’ilare fiaba o il mito di Liolà, sia che si diverta a dimostrare l’inconsistenza della critica di Ojetti o che schizzi impressioni di viaggio su pittori fiamminghi o inglesi o presenti la traduzione sua di un atto di Cecov e schizzi o profili di storia letteraria russa. E con lui andrà ricordato ancora Giovanni Ansaldo, che non molto diede al “Baretti”, poche note e la memorabile invenzione di un viaggio immaginario con Ugo Ojetti, ultimo sprazzo della vena fantastico-satirica del giornalista genovese. Tutt’altro Guglielmo Alberti, gentiluomo e uomo di lettere, che si era formato sui testi della più moderna letteratura francese e inglese, e che di letteratura  discorre in quelle lettere di Oreste all’amico Pilade (Alessandro Passerin d’Entrèves) disformi nel loro manierismo dallo stile gobettiano ma dal Gobetti accolte nel suo aperto liberalismo, e che ci iniziò allora al cinema scrivendo tra l’altro per “Il Baretti” un articolo su Charlot e la Febbre dell’oro: diverso da Gobetti certo, ma non insensibile al suo fascino così come Gobetti si compiaceva di averlo tra i collaboratori , come assai diverso da lui era il letteratissimo, complicato Giacomo De Benedetti, autore per il fascicolo francese del “Baretti” di un saggio sottile e raffinato su Proust, e poi sul “Baretti” ancora di altre pagine sugli autori francesi contemporanei,. Estraneo invece del tutto al mondo gobettiano, tutt’immerso nel suo abito giornalistico, avverso ad ogni ideologia ma schiettamente antifascista Arrigo Cajumi, che parecchio diede al “Baretti” sino alla fine del giornale (vi annunciò tra l’altro vincendo il solito suo abito di malignità con viva simpatia il Diavolo al Pontelungo di Riccardo Bacchelli). Del tutto laterale alla collaborazione di Mario Gromo, che nella sua mentalità di letterato dilettante non riuscì mai a far suoi i motivi fondamentali del mondo gobettiano. Vi era poi l’amico di sempre Santino Caramella , di cui sarà più opportuno parlare per la parte che egli ebbe nel giornale dopo la scomparsa di Piero.
 
 
Altri nomi si potrebbero fare, ma questi e i già menzionati se attestano nella varietà dei loro spiriti e umori la capacità di Gobetti di attrarre intorno a sé e far lavorare uomini diversi, non costituirono però, e tanto meno costituiranno poi un gruppo omogeneo. Che sarebbe stato del “Baretti” dopo la repentina scomparsa del suo direttore? Già alla fine del ’25 era giunta l’intimazione della questura a Gobetti che gli inibiva ogni attività editoriale e col numero del febbraio del 1926 fu assunto come direttore responsabile l’avvocato Piero Zanetti, non tanto per una effettiva direzione quanto per adempiere un obbligo di legge a cui molto volentieri Zanetti soddisfece in un momento così difficile sino alla cessazione del foglio. Si dovette provvedere anche a ricostituire la casa editrice che prese il nome di Edizioni del Baretti , e in cui entrarono come consiglieri più d’uno degli amici di Piero, letterati e non letterati, uomini di diverso carattere e di diversa tendenza, tra i quali mi piace ricordare Felice Casorati, carissimo a Piero come pittore  e come uomo, e Manlio Brosio che con Giuseppe Manfredini era stato rappresentante dei gruppi di “Rivoluzione Liberale” nel comitato torinese delle opposizioni dopo il delitto Matteotti, e che seguì da vicino l’opera del giornale e della casa editrice. Compito primo nostro fu di mantenere in vita la casa editrice, sopra tutto per proseguire e compiere , se fosse stato possibile, l’edizione delle opere di Gobetti, di cui si pubblicarono allora quattro volumi di scritti storici e letterari, tralasciando forzatamente quelli di politica attuale. Ma prima ancora si dovette pensare a un ricordo degno dello scomparso e perciò fu preparato quel numero di marzo del “Baretti”, che in certo senso giustifica da solo l’esistenza di questo giornale dalla breve vita, e rimane a memoria di quel giovane meraviglioso, non tanto per l’articolo di fondo La sua grandezza, che allora io stesi facendomi interprete del sentire di tutti gli amici, quanto per la testimonianza altissima di più d’uno dei collaboratori, ma sopra tutto dei suoi maestri Luigi Einaudi e Francesco Ruffini: una rievocazione affettuosa la prima dei colloqui con Gobetti sui problemi della vita economica e del lavoro, da cui ebbe origine il libro più gobettiano direi dell’insigne economista; Le lotte del lavoro, pubblicato da Gobetti – una pagina da cui balza viva la figura di Einaudi colloquiante e della simpatia sua per un tale discepolo che ben poteva, anche se non sempre consentendo, accogliere la sua lezione. Diverso del tutto il discorso di Francesco Ruffini a cui tanto meno vicino si era sentito Gobetti, e che tanto meno vicino lo aveva sentito negli anni universitari (c’era stato anche un vivace scontro all’esame), ma che a poco a poco aveva scoperto quanto prossimo gli fosse e quanto caro negli anni della battaglia antifascista, quando fra l’altro si fece editore del suo libro Diritti di Libertà , ma sopra tutto si distinse per la sua assoluta intransigenza, simile e pur diversa da quella di lui: un tributo quale forse da pochi altri fu reso, intonato tutto allo stile del suo severo sentire. Sarà pure da ricordare la lettera commossa del vecchio Giustino Fortunato e la testimonianza di quelli che gli furono vicino negli ultimi giorni della sua vita; Vincenzo Nitti, Luigi Emery e Giuseppe Prezzolini, notevolissime tutte, ma direi in particolare quella di Prezzolini così da Gobetti diverso per indole, ma scosso ancora dall’improvvisa apparizione di lui a Parigi con quel fervore di propositi e di azione e poi dalla rapida, dolorosissima fine: una pagina che ci fa dimenticare le troppe altre che il Prezzolini aveva scritto e scriverà poi, documento della forza animatrice di Gobetti, che aveva potuto nei suoi ultimi giorni sollevare il Prezzolini tanto al di sopra del suo fondamentale scetticismo.
 
Dopo Gobetti Amendola, di cui fu dato al giornale ricordare la memoria, lo strazio della fine e l’insegnamento, con una lettera ancora del venerando Giustino Fortunato pubblicata con questo significativo cappello editoriale nel numero del luglio ’26: “Riceviamo dal senatore Giustino Fortunato queste parole di commemorazione di Giovanni Amendola, e volentieri le pubblichiamo, perché non solo possano portare nella patria dell’estinto la testimonianza del di lui illustre Amico, ma anche perché la parola del Maestro esaltando nel Baretti la figura di Amendola suona monito agli animi incerti e sconfortati e ancora una volta indica l’esempio e la meta ai giovani che seriamente si preparano alle vicende future”. Ancor oggi ci sorprende il trovare fra le colonne forzatamente grige del “Baretti” quella lettera con l’altissimo elogio di Amendola (“un non so che di religiosa austerità si accompagnava col fervido adamantino suo carattere, e bene la democrazia liberale poteva gloriarsi di averlo a capo”), con le parole stesse di una lettera sua al Fortunato scritta dopo l’aggressione che doveva, dopo mesi di sofferenze e di cure, condurlo a morte: “Conosco il vostro sentimento e , purtroppo, esso è il mio sentimento stesso, Solo, in più, una fede operosa e ostinata, che prescinde completamente dal successo (Ormai, definitivo insuccesso) della mia vita politica, e della storia dei prossimi venti o trent’anni. Ma poichè la fede non si discute, quando ragioneremo, ci troveremo sempre d’accordo”. Ma già un tributo alla memoria dello scomparso era stato reso dal “Baretti” nel fascicolo del maggio di quell’anno, con un articolo su Amendola filosofo di Santino Caramella (Firmato Uno dei Verri), che vorrebbe tenersi stretto all’argomento ma conclude con queste parole significative per il tempo e le condizioni in cui furono scritte: “Ma quando noi la (la legge della vita di Amendola) vediamo attuata, nella sua natura splendidamente aristocratica, come l’abbiamo vista attuare da Amendola stesso nella sua operosità quotidiana, le difficoltà si attenuano, i dubbi teorici svaniscono, l’interprete e il critico si trasformano in ammiratori.”.
 
Tanto più ci sorprende oggi trovare passi come questi del Fortunato e del Caramella nelle colonne del “Baretti”, quando si hanno presenti le condizioni in cui “IL Baretti” viveva.
 
Non ci furono persecuzioni contro il “Baretti” (diffide e sequestri) come c’erano state contro la “Rivoluzione liberale”, ma da parte nostra un’ovvia cautela per evitarle (sapevamo che quel che si poteva stampare altrove non era facile pubblicare sul “Baretti” e il senso di un’atmosfera di diffidenza di cui ci si sentiva circondati. Un episodio solo, non molto importante ma significativo nello spirito dei tempi: a Natalino Sapegno dal direttore di una rivista di cultura, degna e stimata persona del resto, fu rifiutato un articolo del tutto innocuo politicamente su Cecco Angiolieri con la motivazione che egli era un noto collaboratore del “Baretti”: il che si capisce non impedì al Sapegno di pubblicarlo altrove e fare la carriera che ha fatto. Ben più pesantemente si fece sentire la polizia nelle persecuzioni contro il padre di Gobetti: l’incendio del deposito dei libri delle edizioni del “Baretti”, per cui fu accusato di incendio doloso a scopo di riscuotere il premio di assicurazione e poi, accusa più grave, poiché la sua casa era poco lontana dalla sede torinese della Banca d’Italia, di attentato a un’istituzione statale e all’ordine pubblico, accuse che facilmente furono riconosciute inconsistenti; ma la persecuzione non finì perché il Gobetti subito dopo essere stato liberato, fu imprigionato di nuovo per essersi fatto latore di una lettera di un carcerato, probabilmente un agente provocatore. Accusa anche questa lasciata cadere dopo non molto tempo, ma s’intende come scossi dovettero essere dopo tante prove i vecchi genitori di Gobetti.
 
Tutte questa operazioni miravano evidentemente a intimidire coi vecchi signori Gobetti chi mandava innanzi il giornale: Ma intimidita non fu la compagna di Piero, la signora Ada, sottoposta essa pure a vessazioni poliziesche (Perquisizioni, interrogatori, ecc. a cui seppe coraggiosamente e intelligentemente tener testa, sicchè a lei si deve se il giornale potè ancora per qualche tempo rimanere in vita.
 
Fin troppo ovvie le manchevolezze del “Baretti”: di qui l’impressione che si aveva di mandare avanti un lavoro del tutto o quasi del tutto vano; ma a distanza di anni ci accorgiamo che quella rivista pur con tutti i suoi difetti e le sue lacune viene ad avere un suo significato e un suo peso in quel momento della vita italiana. Certo il Caramella su cui cadde il maggior peso della rivista non aveva il fascino e la forza ispiratrice di Piero Gobetti, né poteva attrarre alla rivista e far lavorare altri spiriti come Gobetti aveva fatto. Adempiè il suo compito coscienziosamente, puntualmente, ma appunto come un compito trattando anche di argomenti disparati quale l’arte di Joseph Conrad o Racine non classico, passando da una Dissertazione sul Paul Valèry al Manzonianismo, a Ritratti delle cose di Francia, dicendo anche delle cose ragionevoli ma evidentemente estranee ai suoi interessi più profondi. Più vivaci e personali gli articoli e le note che recan la firma di Uno dei Verri, come quello già citato su Amendola filosofo, in cui si fa sentire la ispirazione polemica che era al fondo del “Baretti”, contro tendenze letterarie e non solo letterarie del tempo, come la presa di posizione contro i due partiti che allora contendevano nella nostra repubblica letteraria di Strapaese e Stracittà. Ma era possibile andare al di là di quella polemica spicciola ed essa era tale da infervorare Caramella e i suoi lettori? Come ben poco dicevano gli articoli di scrittori “provinciali”, abitassero in città di provincia o in grandi città, che affidavano al “Baretti” i loro componimenti su temi vieti, svolti stancamente. E tuttavia ”Il Baretti” per la sua sola esistenza rappresentava qualcosa, non fosse stato che per quella dicitura che faceva spicco sotto il titolo Fondatore: Piero Gobetti a partire dal numero dell’aprile 1926. E al “Baretti” si deve ricordare che in segno di simpatia Benedetto Croce concesse di anticipare alcune sue note della “Critica a cui particolarmente teneva, quella in cui si presentavano con alte parole di elogio gli studi linguistico-letterari di Leo Spitzer o si combattevano fantasie critiche pericolose come quelle dei critici tedeschi discussi in Immaginari contrasti di cultura, pericolose per il retto intendimento della storia non soltanto letteraria, o sul concetto di letteratura mondiale nelle sue varie accezioni e nei vari sviluppi positivi e negativi, Ma sarà pure da ricordare come titolo di nobiltà che al “Baretti” fu concesso di far conoscere un inedito di Renato Serra, Partenza di un gruppo di soldati per la Libia, pubblicato col titolo Renato Serra e il concetto di storia, che mette in evidenza il problema storiografico che si era affacciato alla mente di Serra dinanzi a un evento nuovo per la storia d’Italia, la guerra di Libia e i sentimenti che essa suscitava nell’animo del popolo: il problema era quello del valore della testimonianza storica, ma al di là di quel problema era il senso di sorpresa e di commozione del Serra di fronte a quel vario moto degli animi all’erompere di quella che pareva una forza nuova.
 
Altro ancora vi è nel “Baretti” che non disdice alla serietà delle sue intenzioni: i lunghi discorsi di Mario Vinciguerra, l’articolo di Sergio Solmi su Umberto Saba poeta o Note d’arte moderna e ancora gli articoli e le note della germanista Emma Sola.
 
Ma un nome ancora non abbiamo fatto, quello di Augusto Monti, il cui contributo fu essenziale per la vita del “Baretti”. Il suo nome con compare nel numero commemorativo di Gobetti: compare invece l’anno seguente nel foglio che porta come sottotitolo ben visibile Nell’anniversario della morte di Piero Gobetti, un trafiletto così evidentemente suo dal titolo Gobetti e i suoi maestri improntato della severità caratteristica del Monti in uno dei suoi momenti più decisi e recisi: un richiamo ancora a Piero col rifiuto sdegnoso di quelli che non l’hanno seguito o seguito soltanto fino ad un certo punto; un rimprovero e insieme un invito ad altri, vecchi e giovani, che si facciano come lui seguaci di Gobetti. Ma già qualche mese prima egli aveva sul “Baretti” pubblicato l’articolo Giustino Fortunato traduttore di Orazio: un vivacissimo articolo che ci pone innanzi una lezione del Monti professore o una sua conversazione, l’autore di quel libro pubblicato da Gobetti Scuola classica e vita moderna che qui trascorre di argomento in argomento, da Orazio e dal suo ideale morale e artistico a Giustino Fortunato coi suoi felicissimi criteri di traduttore, dalle età oraziane della storia d’Italia, l’ultimo Settecento e l’ultimo Ottocento di cui rivendica il valore e il significato per concludere con Gobetti ricordandone l’interesse storico per quelle età e il valore del suo insegnamento. Ma vi è un altro articolo suo del 1928, l’ampio discorso sulla Storia d’Italia del Croce che tante discussioni aveva suscitato con evidenti sottintesi politici. Il Monti non si lascia sfuggire questa occasione per cogliere di quel libro “ottimistico” quello che gli sta a cuore: c’è qui il Monti che si è impossessato della concezione crociara della storia e che ha letto le pagine che più da vicino lo toccano, sopra tutto quel che si dice dell’intervento di cui il Monti salveminiano era stato un appassionato fautore e che ora si compiace di trovare nelle pagine di un “neutralista” di un giorno una giustificazione di quel che egli ha fatto e sentito.
 
Ma la presenza del Monti nel “Baretti” non è da cercare soltanto in quei due articoli firmati o nei trafiletti più palesemente suoi, dobbiamo ricordare che scomparso Gobetti, il giornale restò affidato a qualche suo amico e tra questi primeggiava appunto Augusto Monti che ne fu il vero direttore. Se in tutto quel che di necessità si accoglieva non rispondeva ai suoi gusti, al suo consiglio ci si riferiva in amichevoli discussioni per accogliere o respingere questo o quel collaboratore, sopra tutto per stendere quei trafiletti nostri o desunti da autori d’altri tempi sopra tutto dal Baretti, che danno alla rivista un suo particolare sapore: Ma al Monti si deve l’aver introdotto nella rivista alcuni discepoli giovanissimi che rappresentano la continuità di una tradizione e che di Gobetti furono in effetto i più degni eredi: Massimo Mila e Leone Ginzburg che vi fecero, studenti ancora, le loro prime armi di critici e di scrittori. Da altra scuola proviene un loro coetaneo Aldo Garosci, che al “Baretti” collaborò con note su scrittori del Rinascimento e del Risorgimento, prima di espatriare clandestinamente per iniziare all’estero la sua lotta contro il fascismo. Ma particolarmente significativo è il nome Ginzburg, che doveva portare con un tono tutto suo e nel giornale prima e poi sopra tutto nella vita l’intransigenza gobettiana: Se allora troppo impari ai propositi ci apparve nell’esecuzione “Il Baretti”, ci sembra ora sommamente significativo che questo foglio si apra col nome di Gobetti e si chiuda con quello di Ginzburg(con un articolo suo per il centenario di Tolstoi): un titolo di nobiltà che ci piace ricordare.
 
L’ultima parola però è del Monti ancora: l’avviso agli abbonati in cui si annuncia con discreta ironia la probabile, anzi già decisa fine del giornale e si fa sentire a quali difficoltà si fosse andati incontro per arrivare a questo forse ultimo foglio.
 
 
Mario Fubini

[ Indietro ]